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Cassazione Penale 41055/2015 coabitare con uno spacciatore non implica concorso nella detenzione di stupefacenti

Svolgimento del processo

1. R.B. e Z.A. hanno proposto ricorso avverso la sentenza della Corte d'Appello di Bologna di conferma della sentenza del Tribunale di Bologna di condanna rispettivamente per il reato di cui al D.P.R. n. 309 del 1990, art. 73, comma 1, in relazione alla cessione di cocaina in quantità non accertate (capo 16) e per il reato di cui al D.P.R. n. 309 del 1990, art. 73, comma 1, in relazione al concorso nella detenzione per conto terzi di cocaina (capo 23).

2. Con un unico motivo R. lamenta la nullità assoluta del decreto di latitanza e di tutti gli atti successivi essendo egli stato privato della possibilità di nominare, se non in appello, un difensore di fiducia, di partecipare alle udienze ed accedere ai riti alternativi.

In particolare sarebbero state effettuate le ricerche di rito unicamente presso quella che sarebbe stata l'ultima residenza in Italia, e precisamente a Perugia, quando invece egli era già emigrato altrove nel 2007, mentre nessuna ricerca è stata svolta in Albania, paese di origine. Inoltre mancherebbe il necessario presupposto della sottrazione volontaria alla custodia cautelare essendo stato il provvedimento restrittivo emesso dopo almeno un anno dalla propria emigrazione, versandosi invece in mera situazione di irreperibilità non volontaria.

3. Con un primo motivo Z.A. lamenta la manifesta illogicità della motivazione con riguardo alla affermazione di responsabilità fondata sulla disponibilità dell'appartamento in cui sarebbe stata detenuta la cocaina, ivi mai rinvenuta, tanto più essendo emerso che, in quel medesimo periodo (agosto 2006 - marzo 2007), ella si era trasferita presso l'abitazione della sorella per un grave incidente occorso al marito. Nè gli elementi probatori desunti da condotte del cugino P. potrebbero essere a lei ricondotte.

3.1. Con un secondo motivo la ricorrente lamenta difetto di motivazione in ordine alla attribuibilità di una specifica utenza telefonica, a lei ricondotta unicamente sulla base del riconoscimento vocale della p.g. nonostante risultasse intestata ad altra donna e mai risultassero elementi indicativi di tale attribuzione; lamenta quindi la mancata assunzione di una perizia fonica e ribadisce la mancanza di qualunque elemento di prova in ordine alle accuse rivoltele, neppure la collaboratrice di giustizia S. P. avendo mai riferito alcunchè sul suo conto.

3.2. Con un terzo motivo lamenta l'erronea applicazione dell'art. 114 c.p., contestando il mancato riconoscimento dell'attenuante ivi prevista. Infatti, ove i fatti contestati fossero stati veri, la ricorrente avrebbe comunque unicamente messo a disposizione di terzi il proprio appartamento.

4. Il ricorso di R.B. è inammissibile attesa la indeducibilità in questa sede della nullità lamentata.

Questa Corte ha infatti più volte enunciato che le nullità derivanti dall'erronea dichiarazione di latitanza sono a carattere generale, ma non assolute; sicchè, da un lato, ed in via pregiudiziale, la doglianza si appalesa inammissibile atteso che la stessa non è stata dedotta a suo tempo, dal difensore di fiducia nominato, con l'atto di appello, e, dall'altro, in ogni caso, la natura di nullità a regime intermedio dell'eventuale erronea dichiarazione di latitanza per irritualità o incompletezza delle ricerche determina la necessità che la stessa venga dedotta prima della pronuncia della sentenza di primo grado (tra le altre, Sez. 6^, n. 10957 del 24/02/2015, Benmimoun, Rv. 252634; Sez. 6^, n. 53599 del 10/12/2014, dep. 23/12/2014, Rv. 261872); nella specie, non risulta in alcun modo che detta nullità sia stata dedotta prima della pronuncia della sentenza del Tribunale di Bologna.

5. Quanto al ricorso di Z.A., è infondato il secondo motivo, in realtà di carattere logicamente pregiudiziale rispetto al primo, con cui, invocandosi la necessità di espletamento di una perizia fonica, si lamenta l'immotivata riconducibilità all'imputata della utenza telefonica (nella sentenza impugnata identificata con il numero (OMISSIS)) intestata a terzi ed attraverso la quale sono intervenute le conversazioni che dimostrerebbero in tesi accusatoria la presenza della donna nell'appartamento ove era detenuto lo stupefacente e il suo ruolo collaterale di supporto a P. V., posto che a ciò si sarebbe pervenuti mediante il mero riconoscimento vocale degli agenti di p.g. operanti. Sennonchè, dalla sentenza impugnata si deduce che la Corte territoriale ha in realtà sottolineato, a conferma di tale riconoscimento, il significativo elemento dato, nella telefonata del 23/2/2007 intercorsa con N.K., dall'espresso riferimento alla presenza in casa di " C.", ovvero proprio del marito della Z. ( C.C.), quale ragione dell'impossibilità per la donna di uscire in quel momento; e del resto, sempre nella sentenza, a dimostrazione che la donna presente in casa e conversante al telefono, era proprio la Z., si sottolinea in termini logici, e dunque insindacabili in questa sede, il riferimento della interlocutrice all'intenzione di acquistare un'autovettura di piccola cilindrata, circostanza poi successivamente effettivamente posta in essere proprio dalla Z..

5.1. Appare invece fondato il primo motivo di ricorso con cui si contestano le argomentazioni dei giudici della Corte territoriale in ordine alla ritenuta sussistenza del contestato concorso.

La sentenza impugnata ha affermato che il concorso dell'imputata nella condotta di detenzione, nell'appartamento di via (OMISSIS), dello stupefacente da parte di P., che ivi abitava, per conto del gruppo criminale gestito da Cu. e N., sarebbe disceso dalla disponibilità dell'appartamento stesso, condotto, a quanto pare di comprendere, dalla donna in locazione, a nulla rilevando che la stessa fosse assente in alcuni periodi e a nulla rilevando che nello stesso immobile non sia mai stata rinvenuta droga posto che la presenza di questa è emersa dal contenuto delle intercettazioni operate. Va però ricordato che questa Corte ha più volte affermato che colui che coabiti con il soggetto autore di attività di "spaccio" di sostanze stupefacenti ne risponde a titolo di concorso ove abbia quanto meno agevolato la detenzione della sostanza, consentendone l'occultamento, mentre non ne risponde se si sia limitato a conoscere di tale attività (Sez. 3^, n. 9842 del 10/12/2008, Gentiluomini, Rv. 242996). E' necessario, quindi, un contributo causale in termini, sia pur minimi, di facilitazione della condotta delittuosa mentre la semplice conoscenza o anche l'adesione morale, l'assistenza inerte e senza iniziative a tale condotta non realizzano la fattispecie concorsuale (Sez. 4^, n. 3924 del 05/02/1998, Brescia, Rv. 210638; cfr. anche Sez. 6^, n. 11383 del 20/10/1994, Bonaffini, Rv. 199634). Deve quindi, in altri termini, essere escluso il concorso del convivente ex art. 110 c.p. in ipotesi di semplice comportamento negativo di quest'ultimo che si limiti ad assistere passivamente alla perpetrazione del reato e non ne impedisca od ostacoli in vario modo la esecuzione, dato che non sussiste in tale caso un obbligo giuridico di impedire l'evento ex art. 40 c.p., giacchè il solo comportamento omissivo di mancata opposizione alla detenzione in casa di droga da parte di altri non costituisce segno univoco di partecipazione morale.

Di contro, per la configurazione del concorso, è sufficiente la partecipazione all'altrui attività criminosa con la volontà di adesione, che può manifestarsi in forme agevolative della detenzione, consistente nella consapevolezza di apportare un contributo causale alla condotta altrui già in atto, assicurando all'agente una certa sicurezza ovvero garantendo, anche implicitamente, una collaborazione in caso di bisogno, in modo da consolidare la consapevolezza nell'altro di poter contare su una propria attiva collaborazione (cfr., con riferimento al concorso del coniuge, Sez. 6^, n. 9986 del 20/05/1998, Costantino, Rv. 211587).

Ciò posto, nella specie, come appena detto, la Corte appare essersi limitata a far discendere una condotta di concorso materiale nella detenzione dello stupefacente dalla mera circostanza della disponibilità dell'appartamento ove lo stupefacente era detenuto e ove abitava anche P., ovvero il "gestore" del traffico illecito; ma tale solo elemento, specie in assenza di specificazioni (che la sentenza non opera in alcun modo) circa il fatto che l'uso dell'immobile da parte di P. sia stato consentito dalla donna dopo che questa già aveva avuto conoscenza della illecita attività e dunque proprio in vista della detenzione dello stupefacente e senza che nulla si dica su quali fossero le modalità di custodia, all'interno del locale, dello stupefacente e degli strumenti di confezionamento e taglio, non appare di per sè qualificante, alla luce dei principi richiamati, nel senso dell' individuazione di una condotta di concorso e non di sola connivenza, di per sè, come già detto, penalmente lecita. Nè la sentenza ha spiegato perchè gli spezzoni di frasi attribuibili alla donna conversante al telefono sarebbero eventualmente significative di una condotta di agevolazione nella detenzione della sostanza e non invece di una semplice conoscenza di una altrui sia pure illecita attività.

6. La sentenza impugnata va, in definitiva, annullata limitatamente all'imputata Z. dovendo invece il ricorso di R.B. essere dichiarato inammissibile con conseguente condanna dello stesso al pagamento delle spese processuali e della somma di Euro 1.000 in favore della Cassa delle Ammende.

P. Q. M.

Annulla sentenza impugnata per l'imputata Z.A. con rinvio ad altra Sezione della Corte d'Appello di Bologna: Dichiara inammissibile il ricorso di R.B. e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali e della somma di Euro 1.000 in favore della Cassa delle Ammende.

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